Il codice morale del rugby e la delicata relazione tra giocatori, arbitro e TMO
Il rugby è da sempre conosciuto per essere un grande esempio di condotta morale, intriso in ogni aspetto di grandi valori. Se da un lato appare essere caos governato da leggi precise, dall’altro esistono aspetti del gioco che ancora si svolgono in modo poco definito, uno fra questi è la delicata relazione tra direttore di gara e giocatori, specie in momenti cruciali come il consulto al TMO.
Gli eventi recenti spingono a chiedersi se non sia giunto il momento di fare chiarezza una volta per tutte su quali siano i confini di questo rapporto, fin dove ci si può spingere nei riguardi di chi dirige il gioco e influenzarne le decisioni nel bene e nel male.
Il rugby appare come un caos organizzato agli occhi di tutti, specie a quelli di chi ha sempre visto questo sport da lontano. Potrebbe apparire come se chi dirige il gioco inventasse le regole al momento.
In realtà il gioco, la maggior parte delle volte, viene diretto secondo l’ottica di lasciare fluire gli eventi, essendo la sua evoluzione spesso imprevedibile, gestendo il contatto applicando le giuste sanzioni al momento opportuno e dimostrando quanto forza e intelligenza unite siano caratteristiche vincenti.
Oggi però viene sempre più richiesta una certa chiarezza da chi milita in questo mondo, bisogna che le decisioni prese abbiano sempre un senso, non soltanto alcune volte.
Quello che viene percepito invece sono doppi standard.
Nel match Highlanders-Crusaders di sabato scorso, l’estremo Ben Smith, capitano del team di casa, ha chiesto all’arbitro Nick Briant di rivedere al TMO un probabile knock-on (in avanti) nella costruzione di una meta assegnata ai Crusaders.
Il capitano degli Highlanders era con i compagni sotto i pali mentre osservava sugli schermi il replay della meta di Jordan Taufua quando ha deciso che, sulla base di ciò che aveva visto, era giusto parlare all’arbitro mentre l’apertura avversaria Mitch Hunt stava già preparandosi al calcio di trasformazione.
Smith voleva rendersi conto che Briant fosse al corrente del possibile fallo, sapeva anche che se avesse aspettato la trasformazione non ci sarebbe stato più tempo per contestare la meta.
Così il giocatore ha scelto di intervenire, un atto che può essere interpretato come ottima leadership o un’allarmante infrazione delle regole base di questo sport.
Lyndon Bray, il capo degli arbitri della federazione Sanzaar del Super Rugby ha pubblicamente condannato le azioni di Smith, definendole assolutamente inaccettabili. La sua percezione in merito è che Smith abbia influenzato la decisione degli arbitri in campo in quanto la meta, rivista dunque in seguito al suggerimento dal TMO Glen Newman, è stata annullata proprio a causa di un knock-on di Tim Bateman.
Ha dunque dettato un precedente, che potrebbe portare altri capitani in futuro ad avere qualcosa da dire in merito alle marcature assegnate.
Questo avvenimento rimanda indietro di qualche mese ad una situazione analoga.
Una decisone presa fuori dal campo, che sconfessa il punto di vista dell’arbitro e ne influenza le decisioni: un calcio assegnato viene trasformato in mischia ordinata.
Estate 2017, tour dei British & Irish Lions in Nuova Zelanda. Terzo ed ultimo test tra All Blacks e Lions all’Eden Park di Auckland. Il capitano dei Lions, il gallese Sam Warburton, chiede all’arbitro Romain Poite di ripensare all’assegnazione di un calcio di punizione per la Nuova Zelanda allo scadere del tempo (77’).
L’arbitro Poite, dove aver rivisto l’azione al TMO (George Ayoub) chiama “fuorigioco accidentale”, forse causato dall’All Blacks Kieran Read che, sempre forse, maschera bene l’intenzione di andare su una palla alta causandone il rimbalzo sul tallonatore dei Lions, leggermente davanti a Liam Williams al momento della contesa in aria, che lo tocca d’istinto lasciandolo subito nell’evidente consapevolezza di essere in fuorigioco.
Da qui nasce la pretesa del capitano Read e compagni di un calcio di punizione a favore.
“Non esiste questa definizione sul libro delle regole. E’ fuorigioco o non lo è” così replica il giocatore in maglia nera all’arbitro Poite già in consulto con Warburton il quale invece sostiene l’opposto.
Si potrebbe definire un atto di persuasione nei confronti dell’arbitro, eseguito certo con grande classe, e che ha anche avuto un notevole successo per gli ospiti, risolvendo il match in parità 15-15.
In tutto il mondo, esclusa la Nuova Zelanda, questo comportamento è stato letto come un gesto di fair play e la giusta attitudine di un capitano, nonostante fosse quasi contro le regole in quanto l’azione in questione non era una meta segnata o una situazione di gioco pericoloso, perciò l’utilizzo al TMO non era richiesto.
L’intervento esterno del TMO, e l’influenza dei giocatori in campo, ha cambiato la decisione istintiva dell’arbitro, il quale dovrebbe avere comunque tutto il diritto di essere in errore.
Nessuno al momento dell’accaduto si è allarmato per un fatto simile. Nessuno si è preoccupato del fatto che Warburton potesse aver dettato quel precedente, di cui oggi si accusa Smith, suggerendo agli arbitri di ricorrere al TMO, agendo dunque al di fuori della propria giurisdizione.
Da tempo ormai spettatori e direttori di gara sono abituati a vedere giocatori, o capitani, chiedere delucidazioni su cartellini e altre decisioni.
Un atteggiamento che lentamente si fa sempre più strada sotto gli occhi impassibili di tutti, segno che il codice morale di questo sport potrebbe essere in erosione. Forse negli anni passati, succedeva solo occasionalmente che un capitano ponesse educate domande all’arbitro ma adesso i limiti di questo rapporto diventano sempre più sfocati e il bisogno di chiarezza è necessario.
I capitani hanno sempre influenzato gli arbitri, da decenni, alcuni sono eccezionali e riescono a farlo nel modo più educato possibile, altri meno, ma in generale si è sempre tacitamente accettato che un buon capitano possa lavorarsi l’arbitro.
Che sia alla fine soltanto questa la vera intenzione di Ben Smith? Oppure ha soltanto fatto una legittima domanda a Nick Briant sul perché avesse preso la decisione di assegnare la meta? Allora il motivo per il quale il suo comportamento sia da condannare, mentre quello di Warburton no, resterebbe inspiegabile.
Qui risiede dunque il problema. C’è un codice indefinito e poco specifico su ciò che è considerato una condotta accettabile da parte del capitano in relazione al direttore di gara.
Sembra non esserci trasparenza o costanza, e perciò i giocatori tenderanno sempre a spingere un pò il limite.
Nel rugby è sempre tutto o niente.
Sia che gli arbitri diventino off-limits per i giocatori e capitani, sia che queste situazioni vengano accettate per ciò che sono: uno dei mille aspetti affascinanti di questo sport.